“Diario di lunghi inverni”.

“Ma gli abitanti di San Carlo domani non saranno sul giornale…

La furia sembra passata, meglio però portare qualcun altro al Piano…

Visti da laggiù, i fuggiaschi sono piccole chiazze di colore scuro. Vanno a cercare un posto dove poter vivere senza pensare alla morte”. ( cit.)

Cominciamo così il viaggio nella lettura di questo diario, o taccuino, come meglio definisce l’ autore, dei lunghi inverni della montagna.

Lunghissimi nel Tempo e nello Spazio, lontanissimi dagli occhi della pianura e del mare.

Distanti, sempre, nel bene della passione per le salite, come nel male delle mode che vanno e vengono rincorrendo solamente sé stesse.

Quel grande freddo, che fa della terra e della vita di chi ci abita un antichissimo paradigma, ancestrale per chi ci nasce, tutto da imparare invece per chi decide di viverci, sembra rimanere là, nelle stagioni vuote…”fuori stagione”.

E proprio il freddo, che ha determinato attività, modi di vivere e di rapportarsi al mondo, è il filo rosso che ci guida negli appunti del taccuino.

Quel freddo che gela le parole e le mani per scrivere, che si tiene tutto ciò che per secoli di generazioni è stato la sorte ineluttabile della vita, dove l’ alternativa alla condanna della rassegnata accettazione dalle generazioni più anziane era cercare di partire, emigrare, con distacchi e ritorni sempre difficilissimi da gestire e più pesanti da portare sulle spalle, fino al freddo delle generazioni ancora più giovani, dove forse ‘sembra meglio così’ (cit.), perché almeno per pochi qualcosa c’è, per altri pochi non ci sarà mai, ma sempre su pochi si ragiona.

Sembra meglio così agli occhi di chi non ha alternativa esattamente come sembra agli occhi di chi vede alternative senza nessuna Struttura concreta di attuazione.

Giovanettina è coraggioso e propone senza moralistiche inibizioni dei ragionamenti intelligenti, centellinando volutamente anche la lama della provocazione per scuotere il lettore, perché non ha paura di dire l’ovvio.

Certi suoi appunti farebbero tremare montagne di “certezze”…

“Basterebbe spegnere per qualche minuto l’illuminazione pubblica per rendersi conto di cosa rimane di molti villaggi di questa nostra montagna dispersa, che frana a valle” (cit.)

Inutile girarci intorno, il taccuino di Martino Giovanettina è freddo come la neve e come la neve brucia sulla pelle viva della realtà materiale di questi luoghi.

“Basterebbe spegnere per qualche minuto l’illuminazione pubblica per fare un censimento emotivo di quello che l’Annuario statistico dice da anni. Default.” ( cit.)

Non solo per veder le stelle e il cielo che, almeno per chi non è nato a mare, è cosa sempre più sconosciuta, ma per vedere soprattutto le stelle cadenti di un sistema sociale complicato per il quale il suo cielo pieno di stelle è un luogo sempre più buio e freddo, perché ogni luce accesa nel cielo della terra è calore, rifugio e possibilità di vita.

In montagna non è sempre estate la vita delle persone, non è solo da giugno a settembre o tramontana con cieli immensi di neve purissima.

È anche neve sporca, molto sporca e molto fredda.

Si vive tutto l’anno, in farmacia si va anche con la tormenta di neve, al lavoro anche con la porta bloccata dalla neve, a scuola anche senza autobus che risalgono le vallate alle sei di mattina, e in quarantena quando il freddo, il silenzio e il lavoro sono il cielo più pesante che si possa mai sostenere.

Queste riflessioni suggerite dagli appunti dell’ autore e dall’ esperienza sono solo spunti di un presente che seppur in trambusto, in trasformazione e in tacita ribellione, sembra sempre troppo immobile. Immobile proprio come la montagna che si tiene tutto in un abbraccio che per lunghi secoli ha immobilizzato nel freddo, nel ghiaccio e nell’isolamento la sofferenza, la rassegnazione e la tenacia dei più deboli, compresa la loro silente sopraffazione, anch’ essa sepolta dalla mancanza di cognizione e dalla mancanza di volontà di provare ad aprire gli occhi e non solo la propria poesia dei luoghi del cuore. Anche per questo la neve può essere anche molto sporca.

L’autore molte volte ci va pesante perché talvolta è necessario: “Ci hanno insegnato a dimenticare l’ abisso della montagna nera, ma è un precetto cui è necessario disobbedire, perché la memoria delle vittime è più importante dei buoni, forti, popolari sentimenti ispirati dalla montagna bianca, a tratti eroica, fatta di gente positiva, avvezza alle fatiche, rassegnata ai voleri divini. Ed è giusto parlarne…non per fare sensazione, ma perché i fantasmi nascosti… possono diventare spettri che ammorbano l’ aria. Meglio allora evocarli in luoghi dell’immaginazione, quali possono essere i libri.” ( cit.)

Il libri appunto, come strumento di diffusione della conoscenza e del pensiero critico anche quando troppo langue in silenzi di comodo o di rassegnazione.

I libri sono Resistenti, senza piegarsi alle varie resilienze, che nascono dalle mode, o politicamente imposte, passando per quelle di chi non è potuto mai accedere a minimi strumenti idonei di autodeterminazione e quindi di libertà.

Il libro in questo senso prende direttrici di sicuro “politicamente non correttissime”, ma senza ipocrisie e molto oneste.

Lo stile stesso è appunto e spunto, che se rimane lettera morta però rimarrà solo il prosieguo di un Grande Inverno che sarà sempre di brutto tempo…

Se invece anche quando è brutto tempo si vuole uscire, allora possiamo portarci dietro il taccuino di Martino Giovanettina, che pone di fronte tutto, anche il quesito di “cosa”, quando il meteo dà bello, si voglia salvare esattamente, prima ancora del “come”.

Salvare un corpo sociale è complicato, soprattutto quando si è distanti fisicamente, salvare il resto è lodevole intento, ma sorge spontanea la domanda del perché solo in montagna…come se fosse altro da qualsiasi cosa, lo è sicuramente, ma con tutto il carico sociale che un luogo antropizzato si porta dietro.

L’ autore ci pone di fronte qualcosa che tristemente conosciamo, ovvero: la vita. 

Riconosciamo tristemente che i più deboli continuano a soccombere nell’ ombra e i prepotenti a prevalere quando una Comunità muore, quando tutti si arrendono vicini al baratro.

Riconosciamo esattamente ciò che si chiama ingiustizia, oppure umanità e coraggio e dobbiamo riconoscere per forza che non è “altro da noi”, quelle poche luci non sono altro dalle nostre che oscurano le stelle, solo che sono sole e quando si è soli si vale poco.

Onore all’ Autore che nel freddo delle menti accende una luce che mette a nudo un’ umanità sempre più in difficoltà, sempre meno compresa, sempre meno considerata con tutto ciò che questo comporta, e che oscilla il proprio futuro tra il pendolo della conseguenza e quello della volontà di fare un passo in più verso i fratelli più in basso… oscillazioni che significano però sempre più minute generazioni, che significano i giorni, le notti, il lavoro, le aspirazioni, i sogni e le speranze di ogni essere umano, che significano vite come le nostre.

Questo diario, scritto con le dita gelate, i piedi nella neve e le guance che bruciano come in ogni normale mattina d’ inverno quando il meteo dà brutto e nessuno sale, (né per fare cose sostenibili, né per fare cose insostenibili), con la conta negli occhi di quanti si è in realtà fuori stagione, o con la previsione di un pessimo fine settimana, lo si può leggere distrattamente apprezzandone anche il piglio tecnico interessante dell’ autore, o molto attentamente, o addirittura due volte, in due periodi diversi della vita e della “fortuna”, (come è capitato alla sottoscritta ad esempio), cercando, insieme a chi scrive, almeno qualche risposta ragionevole a tutte le domande che in ogni pagina tormentano i giorni freddi di chi non si rassegna a pensare in maniera intellettualmente onesta.

Di chi non si rassegna a credere che ciò possa significare almeno passare il testimone a chi dopo di noi potrà far meglio grazie anche a questa presente ostinazione, e a non rimpiangere di essere stati ciechi e sordi sul cammino sempre in salita di chi parte in maniera più svantaggiata.

La montagna non è tale senza la voglia di salire in alto se fin da piccoli una passione ci ha acceso il cuore e la speranza di toccare il cielo per riconoscere noi stessi in qualcosa di proprio e intimo, che esula dal dovere che la vita e le necessità sociali ci chiedono per essere donne e uomini completi, ma non si può e non si deve mai a guardare dall’alto verso il basso ciò che vive sotto…crescendo non ce lo si può permettere, a meno che non si voglia essere autoreferenziali pubblici, che è già una contraddizione in termini.

È doveroso ricordare che il paradiso che sfiora il cielo è stato un antico abisso nascosto sotto le acque più profonde dei mari e le acque profonde sono molto scure, quasi nere a volte, e domani altri abissi che non conosciamo troveranno riscatto respirando l’aria piena di ciò che finalmente ha trovato la sua luce, ma ci saranno sempre delle Comunità che dovranno cercare ogni anno il modo per superare l’ inverno successivo.

E proprio per rispetto per ciò che da sempre per molti di noi è passione, tutto ciò che lo riguarda, qualora lo si ritenga giusta causa, merita di non essere ignorato e sconosciuto, o peggio ancora giudicato senza cognizione sufficiente e dimenticando che stiamo tutti sotto lo stesso cielo e viviamo tutti dello stesso pane.

Ogni passione autentica merita il coraggio della propria maturazione, senza necessariamente perdere il seme della pianta originaria, e soprattutto merita un impegno serio e costruttivo, qualora lo si ritenga opportuno, per conoscere e provare a costruire delle alternative concrete.

Un libro da leggere due volte, perché forse alla prima lettura sfuggono molte cose.

È un libro dalla sensibilità sottile, non ostenta, ma in certe sue pagine non ha paura di affermare.

E ciò è virtù sempre più perduta in tempi sperduti.

Infine, un consiglio ai lettori:

“L’ odore della brace spenta”, sempre dello stesso autore. Uno dei migliori libri di questi nostri anni bui.

“Taccuino dei giorni freddi” di Martino Giovanettina, Agenzia Kay Editore

 

Articolo di Ilaria Teofani

Di admin

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