In tempi di guerra, anche contare i morti diventa un atto politico. 
Nella tragedia di Gaza, questa verità è ormai evidente: dietro ogni cifra c’è una narrazione, un potere, un modo di decidere chi merita di essere pianto e chi no.

Negli ultimi mesi due accademici australiani, Gideon Polya e Richard Hil, hanno scosso il dibattito internazionale con un articolo pubblicato su Arena l’11 luglio 2025, dal titolo “Skewering History: The Odious Politics of Counting Gaza’s Dead” (L’odiosa politica del conteggio dei morti di Gaza).
La loro analisi stima che, ad aprile 2025, il numero reale di palestinesi morti — sommando le vittime dirette e quelle indirette — è di 680.000 persone.

La stima di 680.000 morti a Gaza è quindi circa 12-14 volte superiore al bilancio delle vittime di circa 50-55.000 attualmente riportato da quasi tutti i media mainstream occidentali.

 

Il conteggio come arma politica

Polya e Hil da anni studiano l’impatto umanitario delle guerre moderne e denunciano l’“invisibilità statistica” delle popolazioni sotto occupazione.
Nel loro saggio Polya e Hil accusano i governi occidentali e gran parte dei media internazionali di “sterilizzare”la realtà, riducendo la guerra di Gaza a un bilancio amministrativo nascondendo la portata della catastrofe umanitaria.

La loro tesi è semplice ma radicale: le morti indirette contano quanto quelle dirette.
Un bambino che muore di fame perché i confini sono chiusi, una donna che perde la vita per mancanza di antibiotici, un malato cronico rimasto senza cure: tutti sono vittime della guerra tanto quanto chi è colpito da un missile.
Escludere queste morti dal conteggio, sostengono i due docenti, significa accettare la logica dell’assedio.

 

Dai numeri alle persone

Le cifre ufficiali diffuse dal Ministero della Sanità di Gaza, e riprese da agenzie come Reuters o The Guardian, parlano di decine di migliaia di morti confermate.
Ma anche fonti scientifiche indipendenti, come lo studio del London School of Hygiene & Tropical Medicine pubblicato su The Lancet (2025), hanno già riconosciuto che i conteggi basati solo sui registri ospedalieri sottostimano ampiamente la realtà: stimano oltre 64.000 morti violente solo nella prima fase del conflitto.
Un preprint su medRxiv (giugno 2025) ha poi ampliato la stima fino a 84.000 decessi totali, includendo cause non violente.

Polya e Hil partono da questi dati verificati, ma ne estraggono una proiezione più ampia: nei conflitti contemporanei, spiegano, le morti indirette possono essere da cinque a dieci volte superiori a quelle dirette.
Applicando questa proporzione, si arriva alle loro stime di circa 680.000 palestinesi uccisi — non tutti per le bombe, ma per le conseguenze sistemiche dell’assedio.

 

Chi decide chi conta

Il cuore del dibattito, però, non è statistico: è etico.
In un contesto dove ospedali e archivi sono distrutti, dove intere famiglie scompaiono senza lasciare traccia, la pretesa di “certezza numerica” rischia di diventare complicità nel silenzio.
La questione, scrivono Polya e Hil, non è soltanto quanti palestinesi siano morti, ma chi ha il potere di definirli come tali.

 

La neutralità dei numeri, in guerra, è un mito.
Ogni cifra è un atto di potere: contare significa riconoscere, e smettere di contare significa cancellare.

L’umanità ridotta a margine

La storia insegna che ogni genocidio inizia con la cancellazione della voce delle vittime.
Oggi, nella discussione su Gaza, la prima voce a sparire è quella del numero.
Ogni cifra, dietro di sé, è una famiglia intera scomparsa, un bambino non registrato, una madre che nessuno ha potuto seppellire.

In un mondo dove i morti contano solo se certificati da chi li ha lasciati morire, la ricerca di Polya e Hil ci obbliga a chiederci non tanto quanti siano i morti di Gaza, ma chi ha il potere di definirli.

E finché questo potere resterà concentrato nelle mani di chi controlla l’assedio, nessun conteggio potrà dirsi davvero neutrale.

Di admin

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