«Mi rattrista molto pensare alla situazione attuale del mondo. L’essere umano è la mia ispirazione più profonda. L’essere umano ora, o fino ad ora».
Con queste parole, pronunciate a caldo durante la telefonata con Jenny Rydén del Premio Nobel, László Krasznahorkai ha commentato la notizia della sua vittoria del Premio Nobel per la Letteratura 2025. Lo scrittore ungherese si è detto «molto felice e orgoglioso», sottolineando come l’onore di appartenere a una tradizione letteraria che ha dato al mondo “tanti, davvero grandi scrittori e poeti” gli dia “la possibilità di usare la mia lingua, la mia lingua madre, l’ungherese”.
Dietro la gioia per il riconoscimento, però, resta la malinconia di chi osserva il nostro tempo con sguardo lucido e disincantato. L’essere umano — con le sue contraddizioni, le sue cadute e la sua ostinata ricerca di senso — è da sempre il centro della scrittura di Krasznahorkai, autore di romanzi come Satantango e Melancolia della resistenza, divenuti punti di riferimento della narrativa contemporanea europea.
In una preziosa intervista concessa ad Alessandro Raveggi nel 2017 per Il Tascabile (Treccani), Krasznahorkai rivelava il suo profondo legame con l’Italia, “paese che ha mostrato a noi dell’Est una via creativa”. «A scuola in Ungheria ho studiato il latino — raccontava — e il Rinascimento italiano è stato sempre il mio grande amore. Quando sono in Italia è come se mi avessero dato una botta in testa: da ogni parte mi arriva un’influenza fortissima».
Quell’Italia, per lo scrittore, non è solo una patria dell’arte, ma anche un luogo di rivelazione e sradicamento, una soglia che unisce la bellezza alla perdita. Non a caso, parlando dell’amico W. G. Sebald, Krasznahorkai ricordava la comune fascinazione per “gli artisti senza radici”, figure erranti e visionarie che attraversano la storia senza appartenervi del tutto.
Dalle sue parole emerge una riflessione di rara lucidità sul ruolo dell’arte e della letteratura come forme di resistenza spirituale di fronte alla disgregazione del mondo contemporaneo. Pur senza assumere una posizione politica diretta, Krasznahorkai riconosce che ogni narrazione nasce da un universo “chiuso”, che invoca “un input esterno”: una scossa, una speranza di sovversione.
Come osservava Raveggi, per l’autore ungherese “in un mondo di violenza e distruzione, di guerra e guerra, la ricostruzione poetica è un atto utopico ed etico ad un tempo”: un gesto di salvezza che attraversa tutta la sua opera, dal primo romanzo alle pagine più recenti.
Ed è forse in questa tensione — tra rovina e rinascita, oscurità e visione — che si colloca una delle immagini più potenti della poetica di Krasznahorkai: quella dei “tramonti senza speranza”, che, più di qualsiasi autore o maestro, hanno ispirato la sua scrittura. Tramonti che chiudono il giorno ma aprono ancora, nel buio, una possibilità di luce.