Basta pronunciare la parola “genocidio” riferita a Israele e persino i sacerdoti finiscono sotto silenzio. È accaduto alla rete internazionale “Preti contro il genocidio”, oltre mille tra preti, religiosi, vescovi e persino un cardinale, che hanno deciso di rompere il muro di omertà denunciando apertamente i crimini contro la popolazione palestinese.
Alle ore 2:01 del 19 settembre 2025 l’account della rete Preti contro il Genocidio (profetiperlapace@gmail.com) è stato improvvisamente bloccato.
Accesso negato, documenti irraggiungibili, firme congelate. E non si trattava di un dettaglio: proprio su quell’account erano raccolte oltre mille adesioni da 28 Paesi, destinate a essere presentate per l’incontro di preghiera a Roma previsto per il 22 settembre, in concomitanza con la discussione prevista all’Assemblea delle Nazioni Unite.. In un attimo, il lavoro di settimane è stato reso inutilizzabile.
Alle richieste di chiarimento, Google ha risposto in modo contraddittorio e burocratico: prima “account cancellato”, poi “account bloccato”, infine una procedura di ripristino… che non si poteva nemmeno avviare. Solo dopo che la vicenda è esplosa pubblicamente, il colosso si è affrettato a ripristinare tutto, parlando di “segnali anomali” e di “errori automatizzati”.
Ma davvero centinaia di preti che firmano un documento vengono scambiati da Google per una fabbrica di troll o per una rete di hacker? È una giustificazione che non regge. La realtà è che basta un algoritmo “sospettoso” per oscurare un movimento scomodo, e che i meccanismi delle piattaforme digitali funzionano come una censura indiretta: non serve un ordine politico esplicito, basta un blocco tecnico. Il risultato è lo stesso: silenziare chi disturba.
La rete “Preti contro il genocidio” denuncia i massacri, i bombardamenti, la pulizia etnica e l’uso della fame come arma contro i palestinesi. In poche parole, nomina ciò che molti preferiscono tacere. Ed è proprio questo che brucia.
Il caso dimostra che le grandi piattaforme non sono strumenti neutri: sono guardiani del discorso pubblico, capaci di interrompere, anche solo per ore, campagne internazionali di pace e giustizia. E quando a essere colpiti sono persino i sacerdoti, non si tratta più di “incidenti tecnici”: è l’ennesima prova che la libertà di parola, in rete, è concessa solo finché non mette in discussione il potere. E quando l’algoritmo non diventa censore.
Articolo di Giovanni Parrella